domenica 30 agosto 2009

Non è la stessa cosa

"Finché i moralisti speculeranno su ciò che succede sotto le lenzuola di altri, noi ficcheremo il naso (turandocelo) sotto le loro". Così scrive Vittorio Feltri, direttore de Il Giornale. Lo sa, Vittorio Feltri, che non tutte le lenzuola sono uguali, e che quelle degli uomini pubblici - Bill Clinton, i fratelli Kennedy, giù giù giù fino a Silvio Berlusconi - sono molto meno uguali delle altre?

Chiunque abbia studiato un minimo di diritto dell'informazione - e un giornalista, fosse anche il direttore de Il Giornale, l'ha fatto sicuramente, perché te lo chiedono all'esame di Stato - sa che la tutela del diritto alla riservatezza non può essere per un politico rigida e severa come lo è per una persona qualunque. Per un semplice motivo: un uomo politico ricopre un ruolo pubblico ed è chiamato a prendere decisioni vitali per l'intera comunità, che non possono essere inquinate da fatti poco chiari attinenti la sua vita privata. Se tra gli amici di un uomo politico figurano loschi individui avvezzi a traffici poco chiari - corruzione, riciclaggio, mafia, camorra, etc (aggiungere a piacimento, nda) - io lo devo sapere, e non posso essere zittita col refrain "rispetta la privacy del presidente del Consiglio". Se un uomo politico che ricopre un'importante carica istituzionale sta male, ebbene questo non è un dato sensibile da coprire col segreto, è un'informazione che i cittadini devono avere, perché hanno diritto di sapere se il candidato che hanno scelto e che li governa può occuparsi degli affari della comunità. E ancora: se un uomo politico fa pubblicamente pappa e ciccia con la Chiesa, va al Family day e sbertuccia gli omosessuali poi, in realtà, è un uomo separato che va con centinaia di donne e le aiuta nella carriera sperperando risorse pubbliche (succede quando le manda a lavorare in Rai o quando - ancor peggio - le mette in lista per i consigli comunali, provinciali e regionali, la Camera, l'Europarlamento) - io lo devo sapere. Io devo sapere in quali condizioni lavora il mio presidente del Consiglio, come amministra la cosa pubblica e che fine fa fare ai soldi che io pago versando le mie belle tasse.

Quindi, non mi interessa se il direttore del giornale dei vescovi preferisce gli uomini alle donne - mi è chiara, è ovvio, l'ipocrisia, ma non mi interessa adesso - e non mi importa se il direttore di Repubblica compra case in nero. Quello che mi preme è che il mio presidente del Consiglio - perché sì, perdio, è anche mio - risponda alle 10, 20, 100 domande dei giornalisti. Io mi merito un capo di governo che rispetti il popolo sovrano (vedi Costituzione della Repubblica, articolo 1) rispettando innanzitutto la stampa.

Post scriptum. Se il signor B. non si fosse rivolto al Tribunale contro le 10 domande di Repubblica - colpevoli, secondo lui, di diffamarlo - forse il tentativo del suo scagnozzo di spostare l'attenzione su altro al grido di "chi è senza peccato scagli la prima pietra" sarebbe riuscito. Ma puntando il dito contro le 10 domande è riuscito a ricordare a tutti che in oltre quattro mesi di articoli, inchieste e rivelazioni non ha dato risposta ad alcuno dei pochi, semplici, legittimi interrogativi che gli sono stati posti. Insomma, è tornato protagonista. Proprio non ce la fa, a non stare sotto i riflettori.

 

 

sabato 29 agosto 2009

Back to business

La fabbrica delle notizie riapre oggi dopo una lunga pausa estiva. Dovuta alla crisi? Forse sì. Alla crisi di coscienza sicuramente. La mia coscienza, ovvio. In giro ne scorgo poche altre.
Non mi ha sorpreso vedere il signor B. più incollato che mai alla sua poltrona dopo tutte le rivelazioni a base di sesso che siamo stati costretti a leggere in estate. Nessun cittadino di nessun Paese al mondo merita un capo di governo che lo umilia imponendo all’agenda pubblica i propri capricci e i propri interessi e che resta in sella dopo averlo fatto. Ma che rimanesse a cavallo in un Paese come il nostro era prevedibile. Voglio dire, mica noi vantiamo una vera democrazia.
A questo punto, però, mi indigna l’ostinata – e interessata – fedeltà dei suoi accoliti, la cocciuta – e, anche qui, interessata – indifferenza di gran parte dei mezzi di comunicazione, e la passività di quanti – come me – si incazzano ma non fanno mai assolutamente niente. Perché ce la facciamo scivolare addosso? Perché ci rendiamo così complici?
Il mestiere che ho scelto, in un Paese come l’Italia, premia i pavidi e i conformisti. Io conformista lo sono con una certa difficoltà, pavida mi sento quasi sempre. E come posso non avere paura quando vedo certa stampa da regime rispondere col pestaggio a sangue al lavoro – magari non sempre ineccepibile, però sicuramente legittimo – di giornalisti di ogni parte?
Ognuno di noi conserva nel cassetto più remoto della propria anima storie che vuole tenere per sé. Non sempre – per fortuna – contengono “notizie di reato” (niente di penalmente perseguibile, insomma). Ma proprio perché nessuno di noi è un santo immacolato è facile zittire qualcuno spalmandogli brutalmente in faccia episodi – più o meno gravi – di cui s’è reso protagonista nel passato. Facile, così, non entrare nel merito, sparigliare le carte, insabbiare le vicende più scomode. Della serie: “Chiudi il becco, non ti conviene fare rumore”.
Il direttore de “Il Giornale” e il suo sostituto a “Libero” stanno facendo un ottimo lavoro. Dal punto di vista di chi vuole nascondere i troppi corpi di reato del "boss" e cancellare le tracce dei suoi “pasticciacci”, è chiaro.
Ma che schifo, però. Che schifo.
In che razza di posto viviamo?